Il TT è da sempre una delle manifestazioni motociclistiche più controverse al mondo. La gara su strada più famosa, forse anche la più pericolosa. Ogni anno il bollettino è tragico – guardate il video onboard di John McGuinness e capirete perché – ogni anno ci si chiede se sia giusto continuare... ma no, non ho intenzione di riproporre questa domanda, né tantomeno di darvi la mia personale risposta. Piuttosto intendo condividere con voi una riflessione su cosa significhi andare in moto, sullo straordinario senso di libertà che ci regala, tra sensazioni uniche: passione, adrenalina, forse potremmo parlare di vero e proprio amore. E parto proprio da loro, Roger e Bradley Stockton, un padre e un figlio talmente uniti in questa viscerale emozione da essere disposti a sacrificare tutto. Anche la loro stessa vita.
GIUSTO O SBAGLIATO? Non intendo prendere le parti di chi sostiene che correre in moto al TT sia giusto. Ma neanche il contrario. Mi soffermo semplicemente sul fatto che c'è qualcosa di davvero profondo, per molti incomprensibile, che spinge questi piloti a correre lì. Che poi, in misura minore (o meglio, diversa), è un po' quello che – probabilmente – penseranno la stragrande maggioranza degli automobilisti quando ci vedono sfrecciare – non vi devo dire che su strada, ogni volta che corriamo e ci prendiamo dei rischi, sbagliamo, vero?! – tutti bardati nelle nostre tute di pelle. Ma chi glielo farà fare con 40 gradi?! Eh, vorrei poterti rispondere con due parole, amico automobilista (e dopo ci proverò). Ma mettiamo da parte la strada e torniamo al Tourist Trophy, a Roger e Bradley Stockton. Il papà, 56 anni, correva dal 2000 al TT. Il figlio Bradley, 21 anni, era alla sua prima presenza sull'Isola di Man dopo 5 stagioni di gare insieme in altri campionati. Un ragazzo cresciuto al TT, sempre nel paddock per seguire il papà, già da neonato. Le moto, i sidecar, sfrecciavano talmente veloci intorno che poi, a un certo punto, hanno iniziato a scorrere veloci dentro di lui.
Roger e Bradley Stockton col sidecar
INSIEME, FINO IN FONDO Dai 16 ai 21 anni Bradley è cresciuto a pane e moto, correndo col padre come passeggero. Nel dispiacere di non saperli più qui tra noi, strappati alle loro vite, mi commuove saperli uniti in modo unico fino alla fine, alimentati da quel qualcosa di speciale. Ripeto, non voglio neanche idolatrarli come eroi, hanno perso il dono della vita ed è innegabile, ma questo amore padre-figlio vissuto così pienamente, nella loro tragedia, mi commuove. Mi riporta alla mente le considerazioni che si fanno in questi casi: ha senso mettere a repentaglio la propria vita, essere disposti a sacrificarla addirittura, per la propria passione? Cogliere il massimo dalla nostra esistenza, probabilmente, rappresenta anche il miglior modo per dire di aver vissuto davvero. Attenzione, non dico che ci si possa sentire vivi solo rischiando a tutti i costi, ma che, per qualcuno più che per qualche altro, la passione è un prezioso strumento per sentirsi pienamente soddisfatti. Sfrecciare a 300 all'ora, raggiungere la vetta della montagna, cavalcare l'onda più grande, ma anche diventare genitore oppure ottenere il lavoro dei sogni: ognuno trova la piena realizzazione in un modo o nell'altro, ma per alcuni è più pericoloso. Il confine tra aver vissuto a pieno e rischiare di perdere tutto però – me ne rendo conto da solo – è davvero labile.
IL RISPETTO L'argomento è delicato – chi è religioso, probabilmente, avrà una più spiccata sensibilità sul tema – e d'altra parte il rispetto del dono della vita è sacrosanto. Spezzo però una lancia in favore di questi uomini: sono forse peggiori di chi, su strada, corre come un matto alla ricerca di quella scarica di adrenalina, mettendo a repentaglio anche la vita degli altri? No. Sono piloti, fanno il loro mestiere, con passione, certamente anche quel pizzico di follia – così almeno sembra a noi ''normali'' – ma la loro scelta contempla, per me, un profondo rispetto per gli altri.
COS'È LA MOTO? Roger e Bradley Stockton hanno condiviso la loro passione, le emozioni e la paura, hanno vissuto la loro vita a 300 all'ora, inseguendo il sogno di essere sempre più veloci. Più veloci di tutti. In fondo la moto è esattamente questo, per molti di noi: un'emozione profonda, che scorre dentro, fatta di entusiasmo allo stato puro, in una continua tensione con la paura, dall'altra parte. Nonostante la loro tragica sorte – ed è il motivo per cui ho voluto condividere con voi questo pensiero – trovo bellissimo e al tempo stesso struggente che padre e figlio abbiano condiviso tutto questo. Da appassionato di moto so cosa significa emozionarsi per la moto e credo che vivere così intensamente lo stesso sogno sia stato splendido. È triste che sia finita così ma, nonostante tutto, Roger e Bradley hanno perso la vita facendo ciò che amavano e non riesco a fare a meno di gioire per loro, per la bellezza della strada che hanno percorso insieme, uno di fianco all'altro. A 300 all'ora.