La sostenibilità non riguarda solo le emissioni allo scarico: questo un importante nodo da sciogliere quando si parla di auto elettriche, un argomento straordinariamente complesso che merita qualche riflessione. Akio Toyoda di Toyota in primis, e in certa misura anche Carlos Tavares di Stellantis, hanno obiettato che l'elettrificazione totale e gli obiettivi di decarbonizzazione imposti dalla Commissione Europea al 2035 si scontrano con la sostenibilità sociale ed economica della trasformazione che tutto questo comporta. Davvero?
- Auto elettrica: i dati del mercato
- Gli ostacoli all'elettrificazione totale
- Il peso delle amministrazioni locali
- Il rischio occupazione
- La minaccia della Cina
- Cosa potrebbe cambiare le cose
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L'AUTO ELETTRICA IN ITALIA
Punto di partenza delle mie riflessioni è il portafoglio degli italiani. Semplificando, infatti, i problemi di sostenibilità sociale ed economica si traducono in due semplici termini: costo della vita e occupazione. Per capire come siamo messi e dove stiamo andando prendo spunto dagli ultimi dati di mercato che mostrano come in Italia le immatricolazioni di auto elettriche nella prima metà del 2023 siano il 3,7% del totale: in riduzione rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, quando la percentuale arrivava al 5,4%. Il dato italiano è in controtendenza rispetto alla media europea, che vede le auto elettriche al 12% in crescita del 45% anno su anno. Perché in Italia le elettriche fanno più fatica che altrove? Sull'argomento ci si sono scervellate fior di menti e le conclusioni tratte dall'Osservatorio sull'Auto e la Mobilità della Luiss Business School sono che pesino il minor potere d'acquisto degli automobilisti italiani rispetto agli altri dell'eurozona; che la fiscalità italiana penalizzi le flotte (a cui si deve un bel contributo alle vendite) e che il Belpaese sia indietro sulle infrastrutture.
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GLI OSTACOLI ALL'ELETTRIFICAZIONE TOTALE
Da un lato è chiaro che chi ha poco da spendere cerca di andare sul sicuro, evitando modelli più costosi come le auto elettriche: nel dubbio, si sceglie ciò che garantisce un utilizzo senza pensieri e non quello che costringe a un cambio di abitudini nella gestione del veicolo. Dall'altro, quando si parla di infrastrutture, bisogna considerare che a fare la differenza non sono solo i 6 punti di ricarica ogni 100 km dell'Italia contro gli 11 dell’Inghilterra, i 12 della Germania, i 14 della Svizzera, i 24 della Norvegia e i 71 dell’Olanda. In Italia pesano la burocrazia e le caratteristiche architettoniche delle abitazioni, che rendono difficile attrezzare gli edifici con le wallbox o le colonnine necessarie alla ricarica domestica. È vero che un amministratore di condominio, per legge, non può opporsi al condomino che vuole dotarsi di una struttura di ricarica, ma poi entrano in gioco altre autorizzazioni che hanno a che vedere con le caratteristiche tecniche del palazzo e che sono subordinate all'approvazione - non ultimo - dei vigili del fuoco. Ci sono gli spazi per stendere i cavi in sicurezza? Come garantire l'accesso in caso di emergenza?
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IL PESO DELLE AMMINISTRAZIONI LOCALI
Vero, non occorre una presa ad altissima potenza, per recuperare in una notte la carica necessaria per i brevi spostamenti quotidiani del pendolare medio. Le colonnine veloci servono per gli spostamenti più lunghi: quando si va in vacanza, per esempio. Fatto sta che i costi per l'adeguamento delle abitazioni all'uso delle auto elettriche sono una spesa in più a carico degli inquilini e, come anche le tasse con cui si finanziano gli ecoincentivi, contribuiscono a innalzare il costo della vita anche a chi un'auto elettrica non se la può permettere. In questo senso, agevolare la fiscalità delle flotte sarebbe assai efficace, perché un datore di lavoro potrebbe più facilmente attrezzarsi con una stazione di ricarica centralizzata e soddisfare così i bisogni di tutti i propri dipendenti. Va detto che alla scadenza del 2035, quando sarà vietato vendere auto che non siano elettriche o alimentate a carburante sintetico e-fuel, non sarà certo l'Unione Europea a vietare la circolazione delle auto già vendute: a costringere la gente a cambiare l'auto saranno piuttosto le amministrazioni locali, loro sì responsabili di rendere obbligatorie spese del tutto differibili.
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IL RISCHIO OCCUPAZIONE
L'altra faccia della medaglia è il rischio occupazione. In questo senso le stime sono molteplici. Federmeccanica stima che entro il 2035 si perderanno in italia 73.000 posti di lavoro nel solo comparto della produzione industriale, solo parzialmente compensati - potenzialmente - da nuove mansioni legate alla realizzazione di infrastrutture e delle nuove tecnologie. L'indotto e i servizi non sono conteggiati. ''In Europa l'11% della popolazione attiva lavora direttamente o indirettamente nell'automobile'', ricorda Luca De Meo, numero uno di Renault e presidente dell'associazione costruttori ACEA: secondo altre fonti il totale dei lavoratori con impieghi correlati al settore automotive sarebbero 12 milioni e quelli a rischio licenziamento sarebbero 1,2 milioni. Il reimpiego? Passa per una riqualificazione e magari anche un trasferimento, che non sono sempre possibili. Il rischio dei numeri è che spersonalizzano: se mille lavoratori perdono il posto e si creano mille posti di lavoro da un'altra parte, non è affatto detto che le persone a ricoprire le nuove mansioni possano essere le stesse. Un'ovvietà spesso ignorata a bella posta dalle alte sfere.
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LA MINACCIA DELLA CINA
Un aspetto di cui tenere conto è che l'auto elettrica sta letteralmente esplodendo in Cina, dove la produzione industriale è meno regolamentata che da noi. In Europa, invece, si continuano a introdurre vincoli per evitare che il passaggio all'elettrico non si traduca in una catastrofe ecologica. L'ultima stretta è sulla progettazione, produzione e smaltimento delle batterie. E l'industria europea rischia di non riuscire a tenere il passo, a prescindere dagli investimenti e dagli articolati programmi di sussidio che l'attuale Commissione Europea ha studiato per sostenere la transizione. ''Servono delle regole del gioco uguali e un principio di reciprocità, che va rispettato [...] Non possiamo permettere di far entrare in Europa cosi facilmente gli operatori cinesi'', dice Luca De Meo, che insiste sulla disparità delle forze in campo: ''I cinesi controllano la parte alta della catena del valore, essendo partiti 5-10 anni prima. In Europa si vendono un milione di auto elettriche, in Cina 6-7 milioni. La loro prossima frontiera è dunque entrare in Europa''.
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COSA POTREBBE CAMBIARE LE COSE
Un timore diffuso è che siamo indietro e che sarà quasi impossibile recuperare, se l'Europa non attuerà norme protezionistiche o non farà una parziale retromarcia per consentire la sopravvivenza delle attuali tecnologie: quelle su cui rispetto alla Cina siamo ancora competitivi. E mentre la legge sulla transizione all'elettrico prosegue il suo iter in Europa, ci sono tre possibili finestre per cambiare rotta. Una, già prevista, è la clausola controfirmata quando si trovò l'accordo sul protocollo Fit for 55, nel giugno 2022, secondo cui nel 2026 l'intero programma andrà riesaminato proprio alla luce della sostenibilità sociale ed economica. Ma il 2026 appare molto in là, nell'ottica degli investimenti industriali, che a un certo punto devono trovare un ritorno economico pena il collasso del sistema. Nel 2024, però, scade il mandato dell'attuale Commissione Europea, ha ricordato ai microfoni di Rai Isoradio il presidente della Commissione per le Attività Produttive Alberto Gusmeroli, che auspica una nuova commissione più aperta a un paniere diversificato di soluzioni. Senza contare che la Polonia non ci sta e starebbe organizzando il ricorso davanti alla Corte di Giustizia europea, da presentare già nel 2023, per opporsi alla transizione così come è stata concepita. La partita, insomma, non è chiusa.