L'auto elettrica salverà il mondo, ma di quale mondo parlano, in realtà, le istituzioni e i Costruttori? Perché un conto sono i benefici che la transizione elettrica riverserà sulla salute del pianeta (benefici, per la verità, ancora in larga parte da dimostrare). Un conto, invece, è il forte impatto che la mobilità green, inevitabilmente, avrà sul mondo del lavoro. Per il quale, le prospettive sono tutto fuorché rosee. Da più parti, Europa ma anche USA, ci si lancia in proiezioni a medio lungo termine. Ecco alcune stime che interessano solo l'indotto.
Transizione elettrica, una minaccia all'occupazione
DIAMO I NUMERI Una recente inchiesta del Corriere della Sera quantifica in 60.000 i posti di lavoro che la rivoluzione elettrica farà evaporare in Italia da qui al 2035, la scadenza entro la quale l'Unione Europea chiede agli Stati membri di vietare vendita e circolazione di auto diesel e benzina. La cifra è figlia di un semplice calcolo: poiché nello Stivale l'indotto automotive impiega circa 161.000 addetti, poiché inoltre la produzione di un veicolo elettrico richiede circa il 30% di manodopera in meno, i conti sono presto fatti. 60.000 posti in meno, ma a rischio sono anche 500 delle 2.200 imprese della filiera della fornitura, un sottobosco che in Italia è tra i più rigogliosi d'Europa, e che per due terzi spedisce all'estero la propria produzione, con la Germania come primo importatore (il 30% delle auto tedesche è prodotta con componenti made in Italy). La Germania stessa, locomotiva manifatturiera, non riceverà comunque sconti: le stime parlano di 75.000 posti in meno.
Per costruire un'elettrica occorre il 30% di manodopera in meno
DIESEL ANXIETY È soprattutto la platea di piccole e medie imprese specializzate nella componentistica per motori termici, in particolare i motori a gasolio, a temere per la propria sopravvivenza: in assenza di un piano nazionale di riconversione, un intero settore rischia seriamente di essere spazzato via. Senza dover attendere il 2035, già oggi la ripida discesa del motore diesel sta facendo vacillare più di una realtà industriale storica. Vedi la VM di Cento (motori diesel V6) e l'altro polo Stellantis di Pratola Serra, Avellino (motori diesel 1.6), presidi dove a rischio evaporazione sarebbero rispettivamente 450 e 1.780 posti. Un destino a dir poco incerto affligge anche i lavoratori degli stabilimenti Bosch e Marelli di Bari e la fabbrica della giapponese Denso di San Salvo (Chieti), tutti coinvolti nella fornitura di componenti meccanici ed elettronici per propulsori diesel.
QUI USA In Italia in quadro è preoccupante, negli Stati Uniti tuttavia la situazione non è meno allarmante. Secondo la Motor & Equipment Manufacturers Association, l'industria statunitense dei ricambi per auto impiega quasi 5 milioni di persone e rappresenta il 2,5% del Pil nazionale. Ma le politiche federali (il Governo Biden ha firmato per una quota del 50% di auto a basse emissioni entro il 2030) provocheranno la disoccupazione di qualche centinaia di migliaia di lavoratori.
Lo stabilimento ex FCA di Termoli
CORRERE AI RIPARI Tornando di qua dall'Oceano: se il progresso non si può fermare e centinaia di realtà italiane, a meno di riconvesione radicale del core business, non hanno chance di sopravvvivere, la soluzione c'è e si chiama ''investimenti''. Nella trasformazione di poli industriali tradizionali in ''gigafactory'' per produzione batterie, vedi i piani Stellantis per lo stabilimento di Termoli, piani tuttavia ancora solo su carta. Ma anche attrazione di investimenti da parte di Costruttori esteri di auto elettriche. Infine, investimenti in formazione e riqualificazione del personale. La strategia è complessa, delicata e non si sviluppa certo in un giorno soltanto. Ma in gioco sono il futuro dell'economia e il benessere di decine di migliaia di famiglie. Lo sforzo vale il gioco.