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Quindici giorni con l'ultima delle Mini, la diesel, gialla come il sole, trendy come poche. Due settimane tra piaceri di guida, pavé cittadini e... sorprese nel posteriore.
Incredibile, ce l’ho fatta. Non sembrava ma la Samsonite mid-size è entrata nel bagagliaio. È la prima sorpresa, piacevole, che mi riserva la Mini D che ho in prova per due settimane. Nonostante un valore dichiarato di soli 150 litri (appena venti in più della progenitrice quarantenne) il vano della piccola inglese ha ingurgitato la valigia e anche un piccolo zaino.
L'entusiasmo comincia a calare invece nell’abitacolo. Plancia poco profonda, ergonomia anteguerra (vedi levette di servizio), e un generale aspetto plasticoso, come nel falso alluminio spalmato sul cruscotto.
Di buono c’è tutto il look da Mini, la strumentazione a centro plancia grossa come un orologio da parete, il cambio corto a portata di mano. Soprattutto, la posizione di guida ribassata che fa tanto Cooper. È una goduria guidare una Mini: lo è anche per merito di questi dettagli.
Il propulsore romba anche più di quanto mi aspettassi, ma è piacevole; imparo a prendere confidenza col posto guida. Il sedile mi avvolge come un guanto di quelli po’ stretti. Quando ho impugnato per la prima volta il volante ero appena sceso da una piccola multispazio: la differenza è molto sensibile, qui i centimetri sono da Ford Ka, ma almeno, premuto l’acceleratore, è piacevole essere così in basso.
Dando gas la piccolina scatta subito, corposa, la coppia si sente dai regimi più tranquilli. È piacevole da guidare, soprattutto in città: dà il meglio negli stop-and-go, èpronta e agile. E man mano che la progressione sale si avvicina il momento migliore, quello di cambiare marcia.
Secco, sportivo, immediato, il cambio della Mini è forse la sua maggior qualità. Capita di doversi andare a cercare le marce, ce ne sono sei non sempre ben allineate. Ma su strada si passa da un rapporto all’altro con un movimento minimo della mano, avvertendo una rassicurante resistenza meccanica, “sentendo” che le marce sono vicine fra loro. Il contrario delle burrose trasmissioni giapponesi.
Superati i tremila giri il motore si smorza, perde la verve dei bassi regimi. Si può anche tirare fino a 4000 e riceverne una progressione soddisfacente – e un bel sound sportivo. Ma non è quello che appaga: la Mini è più piacevole nei piccoli scatti, nei guizzi urbani. Il sesto rapporto poi è di riposo e innestandolo, anche a 120 km/h, la Mini inizia a ronfare.
Ricomincio a divertirmi con la prova telaio. Il segreto è mantenersi brillanti senza pensare a Fast and Furious. Così si può godere del baricentro basso e del buono sterzo, se invece si esagera la morbidezza viene fuori tutta. Guido nervosetto ma nulla di più. Se premo troppo il gas anche “lei” preme, sulle ruote esterne alla curva però. In termini tecnici manifesta un certo rollio. È una D, mica una Cuperesse.
In compenso mi ha sorpreso sul pavé, su cui scivola comoda e senza vibrazioni. Peccato che in città la ridotta altezza da terra renda facili e indesiderate le “toccate” sottoscocca, mentre sulle piccole sconnessioni la Mini si irrigidisce come un gatto che tocca l’acqua. È il pegno da pagare per lo stile Old England, e per un assetto che comunque non delude. La Mini è meglio di un videogioco.